DAD: quali prospettive per la prossima scuola?

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L’esperienza della DAD dal carattere squisitamente sperimentale ed emergenziale così come gemmata per autopoiesi ha evidenziato, a mio avviso, alcuni limiti ed amplificato alcune problematicità della prassi didattica “d’aula”.

Tra tutti i limiti, la lezione “in aula” quando sprovvista di LIM e, quindi, svuotata della possibilità di proiettare a video in modo sincrono software didattici dedicati, video-esperienze di laboratorio, brevi filmati illustrativi e di costruire documenti “portabili” per uno studio autonomo “a posteriori” in grado di replicare, supportare, amplificare la portata della lezione da rendere disponibile a tutti in modalità asincrona;un aspetto problematico urgente riguarda, invece, alcune disfunzioni presenti nella prassi della valutazione ed, in modo del tutto complementare, di un’impostazione iper-strutturata della lezione per moduli statici cui gli studenti generalmente non si sentono invogliati ad apportare un contributo personale. Molti dei problemi sollevati, quindi, dalla DAD sembrano “vecchi” e si trascinano riflettendosi irrimediabilmente nell’apprendimento e nella concezione stessa del “fare scuola”.Questo perché, se la scuola non è preparata ad affrontare una “rivoluzione” culturale che la renda protagonista nel porre realmente al centro della didattica l’apprendimento, è altrettanto vero che, simmetricamente, anche gli alunni non sono adeguatamente preparati ad affrontarla.La lezione stigmatizzata e cristallizzata rigidamente nella spiegazione, nel compito scritto, nell’interrogazione orale, secondo una scansione standardizzata di moduli e modelli da implementare non può dispiegarsi allo scenario ben più ampio e complesso d’una valutazione formativa dell’apprendimento e mina il cuore stesso dell’intero processo metacognitivo.

Una scuola concepita come serbatoio di conoscenze e voti numerici da sfornare, risultanti da medie aritmetiche, appare inevitabilmente svuotata di senso.Una valutazione che non ponga al centro del suo agire educativo l’intero processo di apprendimento inteso e, quindi, “osservato” nel suo divenire contribuisce solo alla svalutazione, non solo dell’agire didattico ma anche dell’allievo stesso in quanto individuo che necessita, invece, di sentirsi parte attiva esprimendosi attraverso un percorso personale, del tutto avulso da una standardizzazione per “norma”.Numerosi sono gli interrogativi che si affacciano a fronte delle problematicità sollevate. Perché i ragazzi non amano o temono di misurarsi con se stessi attraverso lavori individuali di ricerca, approfondimento, individuazione di collegamenti anche interdisciplinari secondo la propria creatività ed il proprio gusto? 

Cosa s’intende, allora, per partecipazione “libera” e attiva al processo d’apprendimento? Perché attribuire un voto solo ad un compito scritto o ad un’interrogazione orale tramite domanda (stimolo)/risposta e non piuttosto formularlo attraverso diverse “prove” mediante monitoraggio di un apprendimento orientato alla costruzione di senso? Perché non diversificare, ad esempio, le tipologie di compito anche per ciascun alunno o per gruppi di alunni?  Perché dover apporre un voto a qualsiasi lavoro consegnato? L’apprendimento non è forse un impegno continuo? La formazione non è un diritto-dovere da esercitare secondo le proprie attitudini?  Dove inizia e dove finisce il confine tra l’essere e il dover essere per gli attori coinvolti, ciascuno secondo il proprio ruolo? La valutazione formativa non serve, forse, ad orientare verso un processo d’apprendimento metacognitivo? La formazione stessa non è ricerca-azione educativa metacognitiva?

A questo punto sembra ovvio che porsi il problema di quali voti attribuire agli alunni in tempi di DAD siano pressoché superfluo. Oggi assistiamo troppo spesso al “mercato dei voti”: ciascun alunno si valuta attraverso un misuratore matematico denominato “media aritmetica”. Ed in questo consisterebbe la loro “autovalutazione” e tutto l’agire scolastico sembra finalizzato al voto.Una scuola che non aiuta i propri studenti ad imparare a fare autovalutazione vanifica ogni scopo di senso. Una formazione autentica non può prescindere dalla conoscenza del sé. Come può aver luogo un apprendimento “significativo” se finalizzato al voto? Uno scopo di senso orientato al conseguimento di un voto numerico non è in sé significante.  Tutto ciò è un vero fallimento: vanifica interamente il senso dell’apprendimento, dell’interazione e soprattutto del confronto con se stessi. Si crea una frattura insanabile tra l’essere e il voler essere. Come può un alunno acquisire empowerment attraverso questa misconcezione della realtà presentata nella modalità V/F? Come può misurarsi con se stesso, imparare a conoscersi? Quale il ruolo educativo, allora, della formazione scolastica? Sarebbe utile chiedersi: perché la DAD può, quindi, essere fallimentare ed esserlo due volte?  Perché questa, a sua volta, non può essere esercitata attraverso modalità di lavoro realmente interattive, guidate dall’esperienza del docente, unico facilitatore nella ricerca di percorsi di apprendimento significativi: richiede già autonomia di lavoro e capacità di autoanalisi ed obbliga gli studenti ad assumere atteggiamenti più responsabili verso se stessi.

I nostri alunni non sono preparati a questo nemmeno in parte e non lo saranno nemmeno a fine percorso scolastico se sono il risultato di una “pedagogia (fittizia) del voto”.Perché in essa manca il contatto reale con se stessi nell’interazione con docenti e compagni di classe: diviene difficile un reale scambio di opinioni ed impraticabile quello diretto fatto di sguardi, gesti, parole di senso, emozioni. La lezione diventa una videoconferenza trasmessa in modalità sincrona su un cellulare come un filmato trasmesso attraverso la TV. Nella DAD subentrano la perdita identitaria, la spersonalizzazione della risposta come della non risposta, la dissimulazione del “sì, ci sono, ho capito abbastanza”, dell’esserci come del non esserci, che di fatto interrompe completamente ogni possibilità di contatto “empatico” con l’altro, ineludibile passaggio nella conoscenza di se stessi attraverso un dialogo educativo fatto di condivisione e partecipazione dirette.  Una scuola del fare, delle competenze (intese nel senso più stretto del saper utilizzare in modo consapevole e critico le proprie conoscenze), dell’educazione alla salute, alla “libera” espressione, una scuola che aborrisce il mondo virtuale fine a se stesso in ogni processo di crescita non può proporlo come strumento di “didattica a distanza”, per giunta ad uso prolungato per ore giornaliere.

Una scuola che forma non può essere concepita a distanza: è un surrogato, al più un’appendice scolastica “diversamente” utile per gli alunni ospedalizzati, impossibilitati alla frequenza anche di corsi pomeridiani di recupero o di lezioni di formazione sulla sicurezza per ASL, o per lo studio pomeridiano per approfondire, ampliare, sviluppare in autonomia metodologie di lavoro il che ridurrebbe il continuo proliferarsi di lezioni private, talvolta “sconnesse” dal percorso in itinere.  DAD, in quanto appendice del “fare scuola”, può rendersi al più un’ “utile” integrazione del lavoro d’aula quando proposta nel rispetto di principi conformi ad una didattica “orientata” all’apprendimento, attraverso la costruzione di percorsi di senso “aperti” realizzati tramite moduli dinamici, interscambiabili, ricostruibili, inventabili, reinterpretabili, personalizzabili anche dal discente nell’ottica di forme “libere” di apprendimento, più flessibili, non preconfezionate. Può, quindi, divenire fallimentare due volte perché, in aggiunta ai profondi limiti intrinseci ed ineliminabili di cui è fatta, si trascina dietro le problematicità presenti nella sovrastruttura della cosiddetta didattica “d’aula” (la scuola così come noi tutti la concepiamo sulla base della nostra tradizione pedagogica) tra cui, tra l’altro, anche il rischio d’amplificare il divario già esistente tra chi ha i mezzi per fruirne e chi, invece, per svariati motivi, di fatto, non può. Appare chiaro, allora, che occorre ripensare meglio alle motivazioni che condizionano l’agire educativo individuandone concrete spinte propulsive e fattori culturali deprivanti, svalutanti, involutori, disfunzionali “vecchi” e “nuovi” attraverso un’analisi più ecologica del “fare scuola”, traendo utili spunti di riflessione dall’esperienza della DAD. 

Orsola  Parmegiani Laureata in Fisica. Inizialmente impegnata nella ricerca e negli studi in Fisica medica,  ha seguito un percorso di esperienza e di studio incentrato prevalentemente sull'apprendimento, accumulando negli anni diversi titoli riconosciuti dalle Università tra cui 5 specializzazioni sulle metodologie didattiche, dedicandosi al mondo della scuola in un'esperienza ventennale sul campo anche diversificata.

 

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